
Migliaia di attivisti marciano verso Gaza
Migliaia di attivisti internazionali marciano verso Gaza per protestare contro il blocco israeliano e la crisi umanitaria palestinese.
March to Gaza: La marcia globale che sfida il blocco del Governo Israeliano
La Global March to Gaza rappresenta una delle più significative mobilitazioni internazionali degli ultimi anni.
L’iniziativa prevede la partecipazione da decine di Paesi in una marcia pacifica verso il confine di Gaza.
Mentre il mondo assiste al protrarsi della crisi umanitaria nella Striscia, migliaia di volontari hanno scelto l’azione diretta per protestare contro il blocco israeliano che ha portato il territorio sull’orlo della carestia.
Un Movimento senza precedenti: 5.000 attivisti da 54 Paesi
La marcia globale verso Gaza ha catalizzato l’attenzione internazionale, mobilitando circa 5.000 partecipanti provenienti da 54 delegazioni nazionali. Il movimento, nato dal basso e completamente apartitico, si presenta come una risposta della società civile all’inerzia dei governi di fronte alla tragedia palestinese.
Gli attivisti stanno convergendo verso l’Egitto. Tuttavia altre iniziative parallele si sono orientate verso il Libano, la Siria e la Giordania.
Dopo l’atterraggio al Cairo ed il trasferimento in autobus verso Arish nel Sinai settentrionale, la marcia si avvierà a piedi per 48 chilometri attraverso la penisola desertica fino a Rafah, sul lato egiziano del confine con Gaza.
Il viaggio, programmato per durare tre giorni con pernottamenti in tende lungo il percorso, dovrebbe culminare venerdì 15 giugno al valico di Rafah. Tuttavia secondo informazioni dell’ultim’ora, proprio in conseguenza dei blocchi e rallentamenti nelle procedure di ingresso, il giorno di arrivo potrebbe slittare al 19 giugno.
La partecipazione Italiana: 200 attivisti in viaggio
Tra i quali Antonietta Chiodo, reporter di guerra con esperienza pluriennale nel territorio palestinese e portavoce della delegazione, stanno giungendo in queste ore al Cairo.
“Se ci uniamo possiamo cambiare le cose, i popoli possono cambiare le cose, per fermare il genocidio di Israele“, ha dichiarato Chiodo, sottolineando come l’iniziativa nasca da persone che “da tutta la vita lavorano con il popolo palestinese e con le popolazioni sotto assedio“.
La scoperta tardiva di questa iniziativa da parte della società italiana evidenzia quello che gli organizzatori definiscono un fallimento mediatico.
Solo gli arresti e i rimpatri di attivisti italiani al Cairo hanno portato l’attenzione nazionale su questa mobilitazione internazionale.
Personalità di spicco e sostegno Internazionale
Tra i partecipanti più noti figurano Nkosi Zwelivelile Mandela, ex parlamentare sudafricano e nipote di Nelson Mandela.
Ma anche Hala Rharrit, ex diplomatica del Dipartimento di Stato americano, dimessasi durante l’amministrazione Biden per protesta contro la gestione della guerra di Gaza.
Il movimento ha ricevuto ulteriore visibilità grazie al sostegno di Freedom Flotilla Coalition. Ma anche di Greta Thunberg e la deputata europea Rima Hassan.
La nave “Madleen”, intercettata lunedì scorso da Israele, trasportava proprio questi attivisti verso Gaza.
Thunberg è stata rilasciata martedì mentre Hassan rimane in detenzione israeliana.
La crisi umanitaria: numeri drammatici da Gaza
I dati sulla situazione a Gaza dipingono un quadro devastante.
L’aspettativa di vita è crollata da 70,5 anni di un anno fa ai 40 anni attuali.
Secondo Emergency, il 90% della popolazione nella Striscia è sfollata, vive in condizioni precarie con accesso a solo un terzo di acqua pulita come fabbisogno minimo.
Tensioni diplomatiche e posizione egiziana
La marcia pone l’Egitto in una posizione diplomaticamente delicata.
Il Paese, infatti, si trova a bilanciare i rapporti con Israele e Stati Uniti con la crescente pressione interna per condannare le azioni israeliane.
Come mediatore chiave con canali diretti sia con Hamas che con Israele, il Cairo ha mantenuto una posizione cauta, tenendo chiuso il valico di Rafah ai palestinesi.
Restrizioni e rimpatri
Nel frattempo numerosi italiani sono stati bloccati al loro arrivo all’aeroporto del Cairo.
Si tratta di partecipanti alla marcia ai quali viene così impedito di raggiungere i punti di ritrovo.
Da diverse fonti vicine ai movimenti si apprende che sarebbero 35 gli attivisti prima fermati e poi rilasciati mentre altri sette sono stati rimpatriati.
Tra questi ultimi anche Vittoria Antonioli Arduini, originaria del Trentino-Alto Adige.
Stessa sorte è toccata ad una parte degli attivisti provenienti dalla Germania.
Le autorità aeroportuali, infatti, hanno rifiutato loro l’ingresso e li hanno rimpatriati a bordo dello stesso volo con cui erano arrivati al Cairo.
Nelle stesse ore il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha dichiarato di aspettarsi che il governo egiziano “impedisca l’arrivo di manifestanti jihadisti al confine Egitto-Israele”.
Di fatto minacciando che la marcia verrebbe ritenuta una provocazione che “metterebbe in pericolo la sicurezza dei soldati dell’IDF”.
Difficoltà burocratiche e Deterrenza
Le autorità egiziane hanno richiesto permessi preventivi per gli attivisti in arrivo al Cairo, sottolineando “l’importanza di aderire a queste misure regolatorie stabilite per garantire la sicurezza delle delegazioni in visita a causa delle delicate condizioni di sicurezza in quest’area di confine”. Nonostante gli organizzatori affermino di aver seguito “tutti i protocolli richiesti”, giovedì sono emerse notizie di 170 persone che affrontano ritardi e deportazioni all’aeroporto del Cairo.
Gli organizzatori hanno stabilito team legali in Italia e altri paesi per fornire assistenza in caso di necessità, dimostrando la preparazione logistica di un movimento che si presenta come completamente autofinanziato e indipendente.
Una testimonianza di fede e resistenza civile
L’uso del corpo come strumento di testimonianza rappresenta quindi una possibilità concreta di azione.
Non si tratta soltanto di prendere posizione, ma di posizionarsi fisicamente, utilizzando la delimitazione corporea come spazio vivente che cammina, si muove e si unisce ad altri per rivendicare attenzione in favore delle vittime di guerra.
Una iniziativa che ci interroga e che interroga la risposta concreta che la fede può realizzare.
Uzma Usmani, responsabile della logistica per la delegazione britannica, ha spiegato a CNN: “Questo è solo un altro strumento, un altro modo per le persone di alzare la voce, per far sapere ai governi che non siamo felici. Dobbiamo prendere in mano la situazione, sensibilizzare l’opinione pubblica, fare pressione su tutti i governi affinché inizino ad agire“.
L’impatto mediatico e le prospettive future
La Global March to Gaza segna un momento significativo nell’attivismo internazionale per la causa palestinese. Mentre Israele ha imposto un blocco umanitario completo di Gaza il 2 marzo, tagliando cibo, forniture mediche e altri aiuti per 11 settimane prima di permettere un limitato ingresso di aiuti da fine maggio, la pressione internazionale continua a crescere.
L’iniziativa rappresenta la prima marcia globale della società civile di questa portata, dimostrando come i movimenti dal basso possano organizzarsi su scala internazionale quando i canali diplomatici tradizionali tardano o sembrano inascoltati.
Il successo o il fallimento di questa mobilitazione potrebbe influenzare future forme di protesta internazionale e pressione diplomatica.
Un banco di prova anche per le Chiese nella capacità di farsi portavoci, proprio in coerenza con l’annuncio evangelico, di una umanità che si muove, che si rimette in cammino dinanzi alle ingiustizie, le violenze, le guerre.
Gli spazi, la credibilità e l’attenzione di cui le Chiese godono, infatti, ci chiama a declinare la responsabilità in forme nuove e coraggiose: non permettere che il silenzio prevalga e anestetizzi le coscienze. Anche le nostre.
La marcia verso Gaza non è solo un evento di protesta, ma un test per la capacità della società civile internazionale di organizzarsi e influenzare le politiche governative attraverso l’azione diretta e pacifica. Mentre i partecipanti si avvicinano al confine, il mondo osserva questa dimostrazione di solidarietà internazionale che potrebbe ridefinire le forme di attivismo umanitario nel XXI secolo.