
Strage di Capaci: l’umanità dietro il terrore
Il 23 maggio 1992 la Sicilia smette di respirare: l’inquietudine di Falcone sfida anche le Chiese a compiere scelte profetiche coraggiose.
La strage di Capaci: un sabato qualunque
Il 23 maggio 1992 la Sicilia smette di respirare come prima. In quel sabato di 33 anni fa comincia a fare caldo in Sicilia. I pomeriggi assolati, cantati da Franco Battiato, risuonano del ronzio degli insetti e le spiagge riprendono a popolarsi.
La lingua di asfalto tra l’Aeroporto di Punta Raisi e Palermo lascia risalire il calore accumulato durante il giorno mentre il riverbero del cielo annuncia l’arrivo della frescura serale.
È in questo sonnacchioso pomeriggio che un mix di tritolo, nitrato d’ammonio e RDX squarciano il silenzio e l’asfalto.
Muoiono così Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta: Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro.
Mentre rimangono feriti Angelo Corbo, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello, Giuseppe Costanza e altre 19 persone che transitano in quel tratto autostradale.

Giustizia senza odio, legalità senza idolatria
“Anche nel più efferato dei delinquenti io devo vedere l’uomo.” Così diceva Falcone e non si tratta di una frase costruita per commuovere, ma per disarmare.
Un’asserzione che toglie alla giustizia la tentazione della vendetta riportando tutti e tutte al nodo del problema: cosa rende forte le mafie e l’ingiustizia?
In quelle parole possiamo intravedere un’eco protestante: il richiamo alla responsabilità del proprio agire e della propria conversione, anche laddove sembra impossibile.
L’umanità negata come meccanismo di dominio
Vedere l’uomo nel mafioso non lo assolve, ma significa togliere alla mafia ciò che la rende potente: l’aura del mito, dell’invincibilità, del sacro terrore.
La disumanizzazione infatti alimenta i sistemi di potere perché ne accresce l’ombra gigante, spaventosa e irraggiungibile.
Umanizzare il mafioso significa invece svelarne la nudità, la debolezza, la normalità del suo essere umano: in una parola scopre il peccato di cui siamo responsabili.
Ponendo il mafioso dinanzi alla sua solitudine, alla terribile banalità del male, ma anche dinanzi alla propria responsabilità.
Chiese e omertà: una memoria da riscattare
Per troppo tempo una parte della Chiesa cattolica romana ha oscillato tra complice silenzio e prudenza pastorale.
Oggi, nella stagione di un ecumenismo più maturo, ricordare Falcone significa anche interrogarsi insieme su come la fede abbia affrontato – o evitato – il confronto con gli orrori prodotti dalla criminalità organizzata.
E su quanto spazio abbiano saputo lasciare le Chiese alla profezia: alla capacità cioè di parlare quando tutti tacciono, di agire quando tutti preferiscono rimanere a guardare.
Sicilia e resistenza: una grammatica contro la rassegnazione
Nel caldo precoce di quel maggio, la Sicilia non si inginocchiò. La scuola, le strade, le famiglie cominciarono a dire no.
Non senza contraddizioni, non senza fatica. E, alla fine, non senza un ritorno a mali e vizi antichi.
Ma da quella strage si generò una lingua nuova, fatta di memoria civile, di cultura della legalità, di domande scomode. Non fu eroismo: fu dignità quotidiana. Fu resistenza civile e anche religiosa.
La Chiesa del paradosso e il coraggio di scontentare
Anche da quel furore e da quella violenza nacquero consapevolezze nuove: alcune durature, altre meno.
Tra tutte la principale fu quella di un Dio che abita i paradossi: onnipotente che accoglie i vulnerabili, glorioso e crocifisso, eterno eppure presente nei corpi nudi, affamati, incarcerati.
Per questo, la Chiesa – ogni Chiesa – può accettare o rifiutare il rischio di essere impopolare. Di disturbare. Di non essere decorativa.
Quel terribile evento dice qualcosa anche a noi oggi. Una eredità non giuridica ma spirituale: il discernimento che non oscura il male, che non cancella la responsabilità ma che sa affrontarla.
Un compito che la coscienza può raccogliere e che la fede ha il dovere di custodire.
La memoria inquieta
A 33 anni dalla strage di Capaci, resta l’impressione che tutto sia già stato detto.
Talvolta pensiamo anche noi che tutto sia tornato indietro. Nonostante i lutti, le sofferenze, ma anche la passione, la voglia di riscatto.
Forse ciò che manca è l’inquietudine, il turbamento di chi non accetta che il tempo passi senza lasciare traccia.
Ricordare la strage di Capaci per i cristiani e le cristiane non deve tradursi in un compito retorico. Non deve cioè trasformarsi nella scelta di anestetizzare il presente celebrandolo come un giorno, uno tra gli altri, sul calendario.
Perciò ricordare significa chiedersi, oggi, come e dove stia germogliando una nuova forma di sopraffazione. E se, nei confronti di queste antiche e nuove violenze, abbiamo ancora il coraggio di vedere l’uomo, la donna.
E, vedendoli, accettare infine il compito di parlare e non tacere.